Premessa
Durante lo scambio di pensieri in libertà del Ristoro 12 di Donn&Ultra si è parlato, come spesso succede, di ciclo mestruale (CM). Succede spesso perché il CM è la punta dell’iceberg delle peculiari caratteristiche fisiche ed emotive che rendono l’organismo femminile così particolare ed unico. Proprio per questo, come si è commentato leggendo assieme “Good for a girl” di Lauren Fleshman nel Book Club o raccontando l’esperimento Further di Lululemon, è importante studiare e comprendere appieno il corpo femminile soprattutto in discipline sportive come l’ultramaratona – in cui il livello atletico delle donne sta raggiungendo e superando (se non l’ha già fatto) quello degli uomini.
L’impatto che il CM può avere su un’atleta è poliedrico, anche perchè alcuni aspetti fisiologici ad esso correlati rischiano di agire su situazioni magari già presenti o latenti nell’atleta. Nel Ristoro 12 si è parlato di alcuni sintomi fra cui la stanchezza, e questo mi ha fatto pensare di ragionare assieme su un aspetto in particolare derivante dalla mestruazione che può appunto esacerbare una condizione pre-esistente: la carenza di ferro nell’atleta donna. Nella pratica clinica è frequente incontrare atlete che lamentano stanchezza, apatia, affaticamento precoce e frequenza cardiaca più alta durante l’attività fisica ed altri sintomi simili. Un esame del sangue rivela nella quasi totalità di questi casi una carenza di ferro, che è importante conoscere e gestire adeguatamente. A maggior ragione in quel periodo del mese in cui compare il CM.
L’importanza del ferro nella performance atletica
Il ferro è un minerale essenziale associato a numerosi processi coinvolti nella performance atletica, fra cui: trasporto dell’ossigeno ai tessuti e ai mitocondri (le centrali energetiche cellulari), metabolismo aerobico, funzioni neurali, immuni e cognitive. La popolazione atletica più a rischio di incorrere nella carenza di ferro è proprio quella femminile, accanto ad adolescenti ed atleti vegetariani. Se non trattata, la carenza di ferro può causare anemia e conseguenti effetti negativi su ossigenazione, efficienza aerobica e performance atletica soprattutto nell’endurance. Bastano pochi giorni di attività fisica di lunga durata per provocare infatti un fisiologico aumento del volume plasmatico, che causa a sua volta riduzione in ematocrito (rapporto percentuale fra parte liquida del sangue ed elementi figurati), emoglobina e conta dei globuli rossi. L’attività fisica inoltre aumenta i parametri infiammatori, a loro volta attori importanti nel metabolismo del ferro.
Il corpo umano non è in grado di sintetizzare il ferro e dipende dalle fonti alimentari per il suo approvvigionamento, considerando inoltre che alcuni cibi possono promuoverne o inibirne l’assorbimento (Figura 1 e 2).
Un po’ di scienza
Il ferro alimentare è presente in due forme. Il ferro “eme” è contenuto negli alimenti di origine animale, è più biodisponibile ed è assorbito per circa il 20-40%. Il ferro “non-eme” è contenuto negli alimenti di origine vegetale (e parzialmente in quelli di origine animale), è meno biodisponibile ed assorbito solo per il 2-15%. Occorre ora addentrarsi brevemente nel mondo della biochimica.
L’ingresso del ferro nelle nostre cellule avviene attraverso una “porta molecolare” che si chiama ferroportina. L’apertura o la chiusura della ferroportina ha una fine regolazione molecolare, e questo influenza ovviamente il metabolismo del ferro. In particolare, c’è una proteina (l’epcidina, HEPC) che in determinati contesti chiude la ferroportina, impedendo l’ingresso del ferro nelle cellule. A sua volta, la produzione di HEPC è promossa da alte concentrazioni di mediatori infiammatori. E come abbiamo visto l’attività fisica, soprattutto se intendiamo sforzi prolungati nel tempo, crea una fisiologica infiammazione all’organismo.
Riassumendo: ci alleniamo, ci infiammiamo, produciamo mediatori infiammatori, potenzialmente aumentiamo la sintesi di HEPC e con essa andiamo a chiudere la ferroportina. Risultato: il ferro non entra nelle cellule perché la sua biodisponibilità cala e con essa si riduce l’assorbimento intestinale. Il tutto in acuto, cioè nei minuti e nelle ore immediatamente successivi all’’attività fisica (non per sempre). Quindi significa che non dobbiamo più allenarci o fare attività fisica di endurance per evitare di incorrere in stati carenziali? Assolutamente no. Ma quando si segue un regime di integrazione di ferro è meglio che essa sia assunta lontana dal momento dell’allenamento/prestazione, onde evitare che i livelli elevati di HEPC (in acuto) ne vanifichino l’azione.
Ferro e integrazione
A proposito di integrazione, quando è giusto integrare? Quali sono i fattori di rischio per la carenza di ferro nelle atlete? Come si valuta l’apporto dietetico di ferro?
Si integra sempre e solo in presenza di una carenza documentata da esami specifici. Spoiler: rivolgersi sempre ad un professionista certificato (medico nutrizionista o dietologo, biologo nutrizionista, dietista). Il primo trattamento è programmare un’alimentazione ricca in ferro (cereali integrali, semi, legumi, frutta, insalate) ed applicare strategie per migliorarne l’assorbimento (abbinare cibi o bevande ad alto contenuto di vitamina C; evitare caffè, cioccolato o vino rosso). Qualora sia necessaria anche un’integrazione vera e propria, ricordiamo di assumere l’integrazione lontana dall’attività sportiva e a stomaco pieno.
I principali fattori di rischio per la carenza di ferro nelle atlete sono allenamento/prestazione, gravidanza, infezioni, malattie infiammatorie croniche, patologie ereditarie (talassemia, anemia falciforme, deficit di folati o di vitamina B12), condizioni fisiologiche o patologiche acute (es CM appunto, ulcere, utilizzo cronico di alcuni farmaci), introito insufficiente con la dieta (es diete ipocaloriche prolungate e sbilanciate). Non dimentichiamo che il fabbisogno di ferro per le atlete è 1.3-1.7 volte maggiore rispetto alla popolazione femminile non-atletica (1.8 volte maggiore nel caso di dieta vegetariana o vegana).
Le cause più comuni di stati carenziali di ferro nelle atlete sono ridotto consumo di carne rossa, pollame o pesce; diete vegetariane o vegane non bilanciate; disordini alimentari; perdita di appetito post-attività fisica; diete ipocaloriche prolungate, non equilibrate e scarsamente variabili; basso apporto nutrizionale di vitamina C o vitamina A; elevato consumo di the o caffè; scarsa consapevolezza nutrizionale o comportamenti alimentari non salutari.
Conclusioni
Insomma, il discorso è molto ampio. L’atleta donna (ultra, ma non solo) può fare molto già in autonomia per contrastare il potenziale abbassamento nei livelli di ferro derivante dal CM, ricordando che esso è solo uno degli aspetti collaterali del nostro appuntamento mensile e che proprio per questo vale la pena dedicarvi a prescindere più attenzione. Abbiamo citato molte situazioni e condizioni che possono coesistere e nelle quali tante di noi si riconosceranno senza dubbio: è proprio questo che ci dà la consapevolezza di “non essere sole” e, quando necessario tramite l’aiuto di professionisti certificati, di poter gestire al meglio la nostra quotidianità.
Bibliografia:
- Burke, V. Deakin, M. Minehan Clinical Sports Nutrition 17th Ed.
- Damian MC et al, Life 2021; 11(9):987
- Ganz T. & Nemeth E., Nature Reviews Immunology 2015(15) 500-510