La Michael Jordan delle gare ad ostacoli (OCR), la regina della sofferenza. Molte sono state le definizioni che la stampa e i colleghi hanno affibbiato ad Amelia Boone. Avvocata, parte del team legale della Apple, Amelia è nota al pubblico americano per aver vinto praticamente tutto nelle gare a ostacoli dal 2011 al 2016. Tra i suoi titoli saltano all’occhio quattro campionati del mondo e ben 50 podi in 5 anni. Tim Ferris, nel pubblicizzare un suo podcast con lei scrive: “batte il 99% degli uomini nelle gare in cui compete e solo scrivere la sua biografia mi ha lasciato esausto”.
Eppure, Amelia non è stata sempre una sportiva. Ha iniziato a competere nelle OCR per caso, con dei colleghi, quando aveva 26 anni. Prima di allora si era concentrata sulla sua carriera. Ma è sempre stata una perfezionista, una donna che ha sempre spinto il piede sull’acceleratore, che non ha mai ammesso il fallimento.
Quattro fratture in tre anni.
Quando inizia a vedere i risultati nelle OCR, questa sua personalità la spinge a fare sempre di più e a volere la vittoria ad ogni costo. Nel 2015 cerca delle sfide nuove e avendo coperto distanze anche molto lunghe nelle OCR (completando e vincendo la World’s Toughest Mudder, una corsa ad ostacoli di 24 ore), decide di misurarsi nelle ultramaratone. Nel febbraio del 2016 partecipa alla sua prima 100km, arrivando seconda e guadagnando il golden ticket per partecipare alla agognata Western State. Ed è qui che la storia prende tutta un’altra piega.
Mentre si prepara per la Western State (la prima 100 miglia trail organizzata nel mondo e una delle più popolari negli USA), si procura la prima di quattro fratture che, dal 2016 al 2019, la perseguiteranno e le impediranno di raggiungere gli obiettivi agonistici che si era prefissata. Per una donna competitiva e perfezionista come Amelia, questo è senz’altro un periodo difficile, ma nell’affrontarlo scopre una parte di sé che inizia a condividere con chi le sta accanto e con chi la segue sui suoi canali social e sul bellissimo blog.
La riabilitazione
Inizialmente la sua difficoltà sta nell’accettare i suoi infortuni e nell’affrontare le domande sulle sue fratture. Solitamente la frattura è interpretata in maniera negativa perché è indice di gravi errori durante gli allenamenti, così lei ha passato i mesi della prima frattura a difendersi da quello che vedeva come un’onta e a dimostrare di non aver sbagliato niente, impegnandosi per ritornare più forte di prima. Amelia ha sempre qualcosa da dimostrare, ma allenarsi con una frattura, si sa, non è mai una buona idea e gli scompensi che crea nel suo corpo portano ad una seconda: dopo il femore è la volta dell’osso sacro.
Quando finalmente riesce a recuperare, si rende conto che la parte più difficile per lei in realtà è quella che sta per iniziare, quella della ripresa. Si sente molto insicura; l’assale la paura di fallire, di non essere più vincente, di farsi male di nuovo. Teme di non essere più una grande atleta e che nessuno la consideri più come tale. Durante le due riabilitazioni si convince infatti di essersi “rotta”, sia fisicamente che emotivamente. Nella sua testa, da regina del dolore a donna che teme ogni minimo dolore il passo è breve. In questa fase, le domande sono numerose: come gestire queste paure? Ignorarle? Quando riprendere a gareggiare? Aspettare di essere perfettamente pronta a salire sul podio più alto o provare a partire comunque, nonostante tutto?
La difficile ripresa
Nel 2018 inizia a gareggiare, nonostante le mille paure e si rende conto che la cosa è in realtà liberatoria. Le aspettative, in fondo, sono solo nella nostra testa e il mondo va avanti nonostante i nostri tempi in gara. La libertà è accettare tutto: le vittorie, i fallimenti, gli sbagli, le sconfitte, gli infortuni. Anche se adesso il suo medagliere non è più così più impressionante, lei inizia a sentirsi molto più in pace con se stessa.
Quell’anno corre la Barkley Marathons. Non ha mai gareggiato sapendo che al 99% sarebbe andata male e infatti si ferma al secondo giro, anche se conta solo il primo dato che il secondo giro lo termina oltre il tempo massimo. Ma non importa: trovarsi alla partenza davanti all’ormai famosissimo “cancello giallo” è già una vittoria per lei perché sente di aver superato tutti i dubbi su se stessa, dubbi che in passato le avrebbero impedito di partire. Adesso non ha più paura di fallire: dopo anni passati a vincere e a chiedersi perché non fosse mai contenta adesso ha capito che il segreto è accettare il “viaggio” e amare il “processo”. Quell’infortunio in fondo è stata una manna dal cielo, la cosa migliore che potesse capitarle.
La rivelazione che cambia la prospettiva
Nell’elaborare questi cambiamenti, arriva anche il momento di accettare un’altra verità e di condividerla con chi la segue. Una forma di catarsi personale, ma anche una mano allungata verso chi in lei può riconoscersi. Così nel luglio del 2019, Amelia decide di pubblicare un post sul suo blog in cui rivela che da 20 anni combatte contro l’anoressia. Diagnosticatale a 16 anni, negli anni delle scuole superiori e dell’università passa periodi in cliniche specializzate fino a che a un certo punto la malattia sembra solo un ricordo del passato. Anzi, qualcosa che appartiene al passato ma che è meglio dimenticare e di cui è meglio non parlare. Così, quando iniziano i suoi successi sportivi, non dice mai la verità sul perché da ragazzina non ha praticato sport. Si sente forte, vince tutto quello che c’è da vincere. Si convince di star bene, che i suoi disordini alimentari sono frutto della sua vita da atleta, nulla di più, che non ha un problema. Fino a quando non sono arrivate le fratture a ricordarle quello che il corpo non dimentica. A 16 anni, oltre alla anoressia nervosa, le è stata diagnosticata l’osteopenia. Scrive “ero una bomba ad orologeria, che è esplosa con la mia prima frattura nel 2016”. Le sue fratture non derivano da errori commessi negli allenamenti, ma da una serie di carenze nutrizionali. Aprirsi su questo argomento vuol dire non doversi più nascondersi – a se stessa e agli altri – e poter spiegare le fratture per quello che realmente sono. Nel blog racconta che nell’aprile di quell’anno è entrata in riabilitazione presso La Opal Food & Body wisdom in Seattle, fondata da un’ultramaratoneta con lo stesso disturbo alimentare.
RED-S
Ultimamente altre ultramaratonete hanno iniziato a parlare di disturbi alimentari rivelando un mondo che non corrisponde necessario all’immaginario. Come fa un’ultramaratoneta a non nutrirsi abbastanza, sapendo di aver davanti a sé centinaia di chilometri da fare? Le atlete ci sembrano sempre degli esempi di vita sana e cura del corpo, ma a quanto pare non è sempre così. Si parla sempre più spesso del “female athlete triad”
- Disordine alimentare
- Assenza del ciclo mestruale
- Osteoporosi (e conseguenti fratture)
conosciuto anche come RED-S, cioè “Relative Energy Deficiency in Sport”. Il disordine alimentare non sempre è malattia, a volte nasce da allenamenti eccessivi e dalla difficoltà di assumere un numero sufficiente di calorie. Il risultato è lo stesso. Un’altra ultramaratoneta ad aver dichiarato di aver raggiunto il RED-S è Mimmi Kokta, che ha preso una pausa dalle gare proprio l’anno scorso.
Amelia, sui suoi canali social e nel suo blog, è molto trasparente. La sua battaglia con il cibo sembra essere vinta davvero questo volta. Adesso deve affrontare altre battaglie personali. Su Instagram ha di recente affermato che tutte le emozioni che era riuscita a sopprimere perché presa dalla sua ossessione verso il cibo (suo meccanismo di difesa), adesso sono emerse e a volte la sopraffanno. Ma lei ora è pronta ad ammettere i problemi, e a gestirli. Non ha più nessun timore. Sa che anche quello è un “viaggio” e che non deve essere necessariamente perfetto. Ma va affrontato.
Noi siamo sicure che quando si tornerà a gareggiare lei sarà pronta e tornerà la Michael Jordan delle ultra, la regina della sofferenza e lo farà con un cuore più leggero. La vittoria o il fallimento non definirà Amelia, così come non lo faranno l’anoressia, il segreto e gli infortuni. Amelia definirà Amelia.